Ma buonasera a tutti! Comincio questa recensione che è più o
meno l’una di notte, quindi forse sarebbe più appropriato augurarvi la
buonanotte… ma andiamo avanti, tanto se state leggendo non siete qui per
sentirmi sproloquiare (almeno, non così a caso)!
Per quanto riguarda la recensione di oggi, si cambia ancora
genere: ho intenzione, come avrete intuito dal titolo, di andare a parlare di
vampiri. Non tratterò tuttavia di vampiri di genere “moderno”, alla
Twilight per intenderci, e neppure dei vampiri glamour di Anne Rice o del buon vecchio
Dracula. E di cosa andrò a parlare, dunque?
Di un romanzo che del “Dracula” di Bram Stoker è figlio
diretto e che riprende tutti i cliché della più classica caccia ai vampiri:
paletti, collane di aglio, croci e acqua benedetta.
L’autore ha un nome che probabilmente ai più non dirà molto: si tratta
infatti di tale Hugh Davidson.
E chi è Hugh Davidson? Hugh Davidson è in realtà lo
pseudonimo dell’autore Edmond Hamilton, e qui già vedo gli occhi degli appassionati
di fantascienza illuminarsi.
Edmond Hamilton è, infatti, uno dei pionieri del genere
della Science Fiction. Nato a Youngstown, in Ohio, nel 1904, da una famiglia di
origini borghesi, Hamilton si distinse fin da ragazzo per la sua propensione
agli studi, nonché per il carattere estremamente introverso e sognatore. La sua
carriera come scrittore di fantascienza iniziò nel 1926 col racconto “The
Monster God of Mamurth”, che gli assicurò una collaborazione con l’editore Farnsworth Wright, lo stesso di scrittori
del calibro di H. P. Lovecraft e Robert E. Howard. Autore estremamente
prolifico, Hamilton pubblicò più di settantanove opere nel giro di ventidue
anni. Fra di esse si ricordano le saghe: “La pattuglia dello spazio”, “I
sovrani delle stelle” e, soprattutto, “Capitan Futuro”. Quest’ultima saga,
pubblicata a puntate negli anni dal 1940 al 1951, venne tra l’altro adattata in
anime nel 1978.
E visto che non mi par vero di avere una sigla anche stavolta,
ovviamente propino ai nostalgici quella della versione italiana!
Intanto, nel 1946, Hamilton inizia a lavorare per la
DC Comics, specializzandosi in storie per i
personaggi di Batman e Superman. Sempre nel ’46 sposa la scrittrice Leigh
Brackett, con cui comunque non collaborerà quasi mai a livello lavorativo. Al
matrimonio erano presenti, tra gli altri, Ray Bradbury, Jack Williamson ed
Henry Kuttner.
Edmond Hamilton o Hugh Davidson che dir si voglia, muore nel 1977 in seguito a complicazioni
dopo un intervento ai reni.
In tutta questa storia, io non ho ancora rivelato di che
libro si andrà a parlare stavolta. Non tutti sanno, infatti, che Hamilton fece
anche incursione nel genere gotico, pubblicando un romanzo e un racconto con lo
pseudonimo di Hugh Davidson e andando a trattare di vampiri. Io parlerò, come
ormai si sarà capito, del romanzo:
IL SIGNORE DEI
VAMPIRI
di Hugh Davidson
Il romanzo esce in America nel 1935 e giunge in Italia
grazie alla Newton Compton.
Di seguito la trama fornita dall’editore:
Ecco una storia di sangue, d’amore e di
morte, della quale è protagonista assoluto il Principe delle Tenebre. In questo
romanzo, il Signore dei Vampiri, che ha infettato con il germe del vampirismo
una regione montuosa dello Stato di New York, torna dopo duecento anni nella
sua terra asservendo ai suoi fini un seguito dinon-morti.
Nonostante contro di lui si scateni una caccia spietata, sembra che nulla
riesca a fermare il suo cammino e la sua opera di morte e distruzione, finché…
Si tratta, come si sarà intuito, di una storia che nasce
sulla falsariga del “Dracula” di Stoker. Non ne raggiunge lo spessore, questo
va detto, ma si tratta comunque di una storia estremamente godibile.
Trattandosi di un racconto datato 1935 si porta dietro com’è
ovvio i suoi annetti, dunque bisogna partire con l’idea anzitutto che non si
parla (purtroppo o per fortuna, dipende dai punti di vista) di vampiri nel
senso moderno del termine. Anzi, gli ingredienti per una caccia ai vampiri
delle più classiche ci sono tutti: la ragazza vampirizzata (riusciranno a
salvarla? La risposta non è così ovvia!), il dottore esperto di occulto che si
trova a dover indagare, paletti di frassino, acqua benedetta, ville
abbandonate, croci e aglio a volontà. Malgrado dunque una certa prevedibilità
nello svolgimento della vicenda, ciò che mi ha tenuto incollata alle pagine
fino all’alba (perché non riuscivo a dormire e con un temporale in corso cosa
c’è di meglio di un libro di vampiri?) è stato il ritmo serrato della narrazione.
Complice infatti la brevità della storia, 160 pagine in tutto, non ci sono
tempi morti e anzi si respirano una vivacità e una genuinità sorprendenti. Si
capisce, insomma, che “Il signore dei vampiri” non ha mai aspirato a essere un
capolavoro, ma un semplice divertissement.
In questo caso, l’intento è perfettamente riuscito.
Il protagonista, il vampiro Gerritt Geisert, possiede un suo
indubbio carisma. Notevole in particolare la scena in cui la truppa dei “buoni”
si nasconde nella villa in rovina dove lui vive, con l’intento di trovare la
sua bara; Geisert, appena sveglio, li nota e molla senza tanti complimenti due
delle sue seguaci a combattere contro di loro, per poi andarsene
tranquillamente e ricomparire poco dopo con la sua bara sottobraccio, pronto a
fuggire (se la fuga gli riuscirà o meno, ve lo lascio leggere). Durante la sua
permanenza nel villaggio, Geisert cerca ovviamente di crearsi un buon numero di
seguaci, che a loro volta creano altri vampiri. Il suo intento è proprio quello
di fondare un esercito in grado di opporsi agli umani, così da potersi
riprendere le terre che un tempo gli appartenevano. Interessante è il fatto che
Geisert non caccia direttamente, ma prende il sangue dai vampiri che crea man
mano: questo li rende, a conti fatti, degli schiavi legati a lui e poco più che
delle marionette (sia pure senzienti e dotate di una propria coscienza). Ad
avermi interessato in particolare è stata la sottotrama dedicata ad Arthur
Newton, un giovane del villaggio che sparisce misteriosamente per poi
ricomparire vampiro. C’è qui un guizzo che contiene elementi della più moderna
letteratura sui vampiri: un amore che, in qualche modo, trascende la morte
stessa.
Trattasi dunque di un romanzo che io consiglio come lettura
di intrattenimento, non imprescindibile ma interessante e vivace nel suo
genere, senza ovviamente andare a confrontarlo con “Dracula” perché, come ho
detto, questo non vuole essere un capolavoro né è nato per esserlo. Da leggere anche se ne avete abbastanza di storie alla
Twilight, Vampire Diaries, ecc. e volete ritornare a una sana, serratissima
caccia ai vampiri vecchio stile.
Detto questo, buona lettura!
Titolo: “Il signore dei vampiri” Autore: Hugh Davidson Editore: Newton Compton Pagine: 160 Prezzo:
6,00 €
Ed eccoci alla quarta recensione, dedicata stavolta a un romanzo piuttosto particolare, di cui ho già praticamente rivelato il titolo lassù, nell’intestazione del post. Solo che ad alcuni suonerà più familiare se userò il titolo originale, che è poi quello utilizzato per la recente trasposizione cinematografica nonché per la ristampa del libro. E, visto che ci siamo, stavolta non c’è una sigla ma addirittura una colonna sonora!
Godetevi dunque il sestetto “L’Atlante delle
Nuvole” di Robert Frobisher, mentre leggete una recensione che, come avrete
capito, andrà a parlare di…
CLOUD ATLAS
di David Mitchell
Come al solito, due parole sull’autore: David Stephen
Mitchell nasce in Inghilterra nel 1969. Ha scritto cinque romanzi, fra cui “Cloud
Atlas”, che tra l’altro gli vale una nomination per il Booker Prize. Mitchell
cresce in Worcestershire, frequenta la University of Kent e ottiene una laurea in
letteratura inglese e americana, seguita da un master in letterature comparate.
Vive per un anno in Sicilia e per otto a Hiroshima,
Giappone, prima di ritornare in Inghilterra. Attualmente vive in Irlanda,
contea di Cork, con sua moglie Keiko e i loro due figli.
Mitchell soffre inoltre di balbuzie, e ha parlato del suo disturbo in un
racconto semi-autobiografico dal titolo “Black Swan Green”. È inoltre uno dei
patroni della British Stammering Association.
Riguardo a “Cloud Atlas”, è un romanzo dalla struttura molto
particolare. Si tratta, infatti, di sei vicende intersecate fra loro come una
matrioska, apparentemente slegate tranne che per piccoli rimandi (e ci vuole
anche una discreta attenzione per riuscire a coglierli tutti).
Abbiamo, nello specifico:
- Il diario dal Pacifico di Adam Ewing
- Lettere da Zedelghem
- Mezze vite: il primo caso Luisa Rey
- La tremenda ordalia di Timothy Cavendish
- Il Verbo di Sonmi-451
- Sloosha Crossing e tutto il resto
Tutti i racconti, tranne l’ultimo, si interrompono
esattamente a metà e passano alla vicenda successiva. La struttura è quella di un "1 2 3 4 5 6 5 4 3 2 1": “Sloosha Crossing e tutto
il resto” funge da spartiacque, è da un lato l’elemento più piccolo della
matrioska, dall’altro quello che racchiude tutte le altre storie.
Il romanzo è stato recentemente ristampato da Frassinelli, in occasione
dell’uscita del film diretto dai fratelli Wachowski. Prima di passare dunque
all’analisi dei singoli racconti e dei rimandi che li legano, ecco la copertina
del romanzo nell’edizione che ho io e che riproduce la locandina del film:
Ecco la trama fornita dall’editore:
I sei protagonisti di "Cloud Atlas
- L'atlante delle nuvole" vivono in punti e momenti diversi del mondo e
del tempo, eppure fanno parte tutti di un unico schema, una specie di matrioska
composta da sei personaggi uniti l'uno all'altro dal filo sottile e
inestricabile del caso. Le loro anime si spostano come nuvole, passando dal
corpo di un notaioamericano di metà
Ottocento, giunto su un'isola del Pacifico per assistere ai devastanti effetti
del colonialismo, al giovane musicista che s'intrufola nell'esistenza di un
celebre compositore belga tra le due guerre mondiali. Da un'intrepida
giornalista che indaga sull'omicidio di uno scienziato antinucleare in piena
guerra fredda, a un editore inglese in fuga dai creditori nella Londra anni
Ottanta, sino a un clone schiavizzato nella Corea del prossimo futuro. Per
arrivare infine all'alba del nuovo mondo - all'indomani dell'Apocalisse - e al
suo primitivo, stupefatto abitante. I sei personaggi si trasformano vivendo
avventure incredibili in un affascinante, inventivo viaggio nella Storia dalle
grandi esplorazioni fino ai confini del mondo che verrà - e nell'anima stessa
dell'uomo. Un romanzo generoso, un'apoteosi di sapori, colori e atmosfere che
emoziona, stordisce e finisce dove tutto era iniziato. Un'epica storia del
genere umano nella quale le azioni e le conseguenze delle nostre vite si
intrecciano attraverso il passato, il presente e il futuro, mentre le nostre
anime mutano cambiando per sempre il nostro destino.
Il primo dei racconti, come ho già accennato sopra, si
intitola “Il diario dal Pacifico di Adam Ewing”. È ambientato nelle Isole
Chatham nel 1850, e riprende la forma del diario di bordo. Ewing, un giovane
notaio di San Francisco, si trova su una delle isole dell’arcipelago durante un
viaggio per le Hawaii, e attende riparazioni alla sua nave. Durante il suo
soggiorno assiste alla fustigazione dello schiavo Moriori Autua (provando pietà per lui), e
conosce il dottor Henry Goose, un inglese che diventa ben presto suo unico
amico e gli diagnostica un’infezione da parassiti. Si offre dunque di
imbarcarsi sulla nave con Adam e di aiutarlo a guarire. Durante il viaggio,
tuttavia, Ewing scopre che Autua s’è imbarcato clandestinamente; il Moriori lo
prega allora di intercedere presso il capitano, in modo da convincerlo ad
accettare i suoi servizi come marinaio. Ha, infatti, visto la pietà negli occhi
di Adam durante la fustigazione e lo considera ormai un amico.
Questo è, in breve, il preambolo da cui la vicenda si snoda,
senza dare ulteriori dettagli sulla trama del racconto per non rovinare la
lettura a chi volesse approfondire.
Ecco le foto dei personaggi come sono mostrati nel film dei Wachowski:
David Gyasi as Autua
Jim Sturgess as Adam Ewing
Tom Hanks as Henry Goose
Lo stile di questo racconto, come ho detto, riprende quello
dei diari di bordo. Da un lato, in effetti, le sei vicende sono altrettanti
esercizi di stile: ognuna ne ha uno suo peculiare, che Mitchell è stato davvero
bravo nel riprodurre. (Anzi, sarebbe molto interessante andare a leggere il
romanzo in inglese, per godersi al meglio tutte le trovate e gli éscamotage linguistici utilizzati.) In
traduzione, in effetti, questo racconto in particolare rende meno di quanto
potrebbe: risulta un po’ forzoso l’inserimento di termini della lingua
ottocentesca, e questo rallenta la lettura. Non che la traduzione sia fatta
male, capiamoci, anzi leggendo qua e là qualche stralcio del romanzo in inglese
l’ho trovata molto buona (anche perché tradurre un romanzo tanto denso non
dev’essere lavoro semplice). Tuttavia, in una traduzione di per sé corretta,
alcune parti avrebbero virtualmente
potuto essere rese diversamente.
Andando a leggere anche la seconda parte del diario di
Ewing, che poi è quello che va a chiudere il romanzo, si capisce però che
proprio questo è il racconto in cui meglio si esplicita il senso dell’intero
volume. Si parla di una società predatrice, Inglesi che sfruttano i Maori e
Maori che sfruttano i Moriori. Il forte mangia, il debole soccombe, che si
tratti di inganno o di pura forza bruta. Questo, nel racconto di Adam Ewing,
viene esplicitato a chiare lettere.
E tuttavia ciò che c’è di bello, in questo come nelle altre
vicende narrate, è che permane sempre una speranza, la speranza ossia che
qualcosa possa cambiare.
Dalle ultime righe del racconto:
«[…]Ingenuo di un sognatore, Adam. Chi
osa sfidare quell’idra dalle molte teste che è la natura umana paga il suo
gesto con atroci sofferenze e con lui la sua famiglia! Quando esalerai l’ultimo
respiro capirai che la tua vita altro non è stata che una piccola goccia in un
oceano sconfinato!» Ma cos’è l’oceano se
non una moltitudine di gocce?
Col secondo racconto (“Lettere da Zedelghem”), che vede
protagonista il giovane compositore Robert Frobisher, si fa un balzo in avanti
nel tempo fino al Belgio del 1931. La forma è quella del romanzo epistolare,
con lettere indirizzate da Frobisher al suo amico e amante Rufus Sixsmith,
studente di Cambridge.
Ben Whishaw as Robert Frobisher
James D'Arcy as Rufus Sixsmith
Robert Frobisher è un geniale quanto spiantato musicista,
diseredato dal padre e tuttavia abbastanza furbo da riuscire a cavarsela con
qualche espediente. Decide, per provare a cambiare le sue sorti, di lasciare
l’Inghilterra e di dirigersi in Belgio, sulle tracce di una vecchia gloria
della musica: Vyvyan Ayrs, vecchio compositore in ritiro, malato di sifilide e
quasi cieco. Vuole offrirgli i suoi servigi come copista, in modo che possa
tornare a comporre. Rendendosi conto del talento del ragazzo, Ayrs lo accetta
nella sua vita: gesto, questo, che non sarà privo di conseguenze. Frobisher
intreccerà una relazione sessuale con Jocasta, moglie di Vyvyan, e si
innamorerà apparentemente ricambiato della loro figlia Eva (personaggio del
tutto assente nella trasposizione cinematografica). Tutto andrà per il meglio,
fino a che Frobisher non si troverà a dover scegliere fra il piegarsi alla
dittatura di Ayrs e la propria reputazione.
Jim Broadbent as Vyvyan Ayrs
Halle Berry as Jocasta Ayrs
In questo racconto lo stile si fa più fluido, vivace,
amaramente ironico. Ne è complice il carattere di Robert, come anche la natura
del suo personaggio stesso: è l’incarnazione dell’artista (tra l’altro, è lui a
comporre il sestetto “Cloud Atlas”), un personaggio perennemente in movimento,
in fuga (bello il rimando alla “fuga” musicale).
Il lessico, infatti, si fa ricchissimo di rimandi alla musica, all’orchestra,
alla composizione. Il mondo è per Frobisher un mondo di suoni, di sinestesie,
dove il colore e l’immagine stessi diventano musica. Stilisticamente, in
effetti, è uno dei racconti più interessanti; viene accennato qui il concetto
del “tutto torna”. La sinfonia che Ayrs intende comporre, ad esempio, si chiama
“Eternal Recurrence”. È il concetto
del girare in tondo, del percorrere gli stessi passi senza rendersene conto,
del tornare negli stessi luoghi e del compiere le stesse azioni, non soltanto
nella vita corrente ma anche in quelle anteriori e future. L’eterno ritorno che
teorizzava Nietzsche.
C’è poi un rimando al primo racconto, poiché Robert trova e
legge il “Diario dal Pacifico di Adam Ewing”. Fa la sua comparsa, inoltre, la
voglia a forma di cometa che alcuni personaggi hanno sulla clavicola. Simbolo,
pur se non viene mai esplicitato, dell’anima reincarnata. La cosa divertente è
Mitchell non si limita a inserire un rimando al passato, ossia alla vicenda di
Adam Ewing, ma anche un onirico rimando al futuro! Ossia a quello che, noi non
lo sappiamo ancora, sarà il quinto dei racconti che compongono il volume.
Interessante anche un sottile rimando alla Genesi cristiana:
dando per scontato che Frobisher sia proprio una reincarnazione di Adam
(Adamo), si nota come in questa vita venga tentato da Eva: elemento, questo,
che segnerà proprio l’inizio della sua caduta.
Il terzo racconto è: “Mezze vite: il primo caso Luisa Rey”.
Ambientato nella fittizia città californiana di Buenas
Yerbas nel 1975, ha
la struttura di un thriller e non essendo io particolarmente amante dei
thriller è stato il racconto che mi ha entusiasmato meno.
La protagonista è Luisa Rey, una giovane giornalista che si
trova, suo malgrado, coinvolta in un’investigazione su un caso più grande di
lei. Si tratta infatti dei rapporti sulla sicurezza di una nuova centrale
nucleare: malgrado i dati ufficiali, infatti, un rapporto redatto dal fisico
Rufus Sixsmith dimostrerebbe che l’impianto è tutt’altro che sicuro e che anzi
un guasto potrebbe provocare danni incalcolabili (si fa riferimento
all’incidente di Three Mile Island, qui il Wiki: http://it.wikipedia.org/wiki/Incidente_di_Three_Mile_Island).
Rufus Sixsmith è il primo legame col racconto precedente, e fra l’altro Luisa
entrerà in possesso delle lettere di Frobisher, gelosamente conservate da
Sixsmith. Tramite lui, comunque, la giornalista entra in possesso di una delle
copie del rapporto che dimostra la pericolosità della centrale nucleare. Inizia
così un’altra fuga per la vita.
Halle Berry as Luisa Rey
Il quarto racconto, “La tremenda ordalia di Timothy
Cavendish”, è ambientato in Gran Bretagna ai giorni nostri. È un racconto in
chiave comica – sia pure un poco amara – della vicenda di Timothy Cavendish, un
piccolo editore che si trova, non senza colpa, minacciato da una banda di
gangster. Con la scusa di proteggerlo, suo fratello lo fa rinchiudere in una
sperduta casa di riposo dai confini invalicabili e sorvegliati dalla perfida
infermiera Noakes. Da quel momento in poi, tutta la sua vita diventerà un
rocambolesco tentativo d’evasione (l’ennesima fuga).
Hugo Weaving as Nurse Noakes
Jim Broadbent as Timothy Cavendish
Anche qui, c’è un rimando alla vicenda di Luisa Rey:
Cavendish si trova fra le mani, e legge, proprio un manoscritto intitolato
“Mezze vite: il primo caso Luisa Rey”. Diventa palese dunque che il legame fra
i racconti è in primo luogo un legame letterario: i personaggi leggono le
storie degli altri personaggi (o, in un paio di casi, le guardano). Questo si
esplicita specie nella seconda parte del romanzo, dove la conclusione di un
racconto rimanda direttamente all’incipit del successivo, creando uno splendido
effetto a cascata che, fra l’altro, chiarifica molti punti oscuri e cattura il
lettore rendendo la lettura dell’opera una vera discesa. Giunti alla seconda
metà, infatti, si è perfettamente in grado di rimettere i tasselli a posto, la
cesura fra un racconto e l’altro è meno netta e dunque la lettura risulta molto
meno ostica: il meccanismo e gli stili sono ormai chiari, i mondi sono
familiari e il lettore s’è abituato a fare i bagagli e a saltare dall’uno
all’altro.
In questo racconto, il legame che emerge è anche quello
dello spostamento: nel loro ripercorrere gli stessi sentieri, nel loro essere
in fuga, in movimento, i personaggi prendono navi, prendono treni. I treni si
fermano, ripartono, a intermittenze che ricordano quelle della stessa vita.
Timothy Cavendish, inoltre, si rivolge spesso direttamente a
un ipotetico regista che dovrebbe trarre dalla sua storia un film. Elemento
questo che sarà importante nella storia successiva.
Altri sottili rimandi legano Cavendish alla figura di Robert
Frobisher. Non soltanto c’è un punto in cui chiama i suoi genitori “Mater” e
“Pater”, come Robert, ma anche lui parla di un “atlante delle nuvole”:
“Cosa non avrei dato
ora per una mappa immutabile dell’ineffabile sempre costante? Per possedere,
per così dire, un atlante delle nuvole.”
Ecco dunque il concetto, di nuovo, dell’eterno ritorno come
già l’aveva espresso l’eterno ragazzo Frobisher. Timothy invece è vecchio, ed è
come se siano due facce della stessa medaglia. Uno giovane, l’altro anziano.
La penultima vicenda presentata è quella di Sonmi-451, ed è
in assoluto la mia preferita. Siamo qui in ambito fantascientifico, in una
Corea futuristica governata da una corpocrazia. Si tratta di un luogo in cui la
sola religione esistente è ormai quella del denaro, una forma evoluta di
società consumistica, dove i concepimenti, la morte, lo stesso corredo genetico
degli individui vengono programmati e controllati. Una società, si scoprirà in
seguito, che si regge sul tabù del cannibalismo (e di nuovo è sempre lo stesso
concetto sotto altre forme: il forte mangia, il debole soccombe). La forma
usata è quella dell’intervista, realizzata da un Archivista alla prigioniera
Sonmi-451. Veniamo a scoprire che Sonmi è una cosiddetta “servente”, ossia un
essere umano clonato le cui facoltà intellettive vengono ridotte al minimo e
che viene utilizzato come schiavo nei lavori più umili. Queste serventi non
sentono la necessità di farsi domande, non comprendono il mondo e il modo in
cui vivono. Comprendono soltanto il trascorrere sempre uguale dei giorni, ma
non hanno quello slancio interiore che spingerebbe una creatura dotata di
ragione a ribellarsi. Sono poco più che degli automi, e tali vengono
considerate.
Le giornate sempre identiche di Sonmi-451 vengono però spezzate da
un’altra servente, Yoona-939. Quest’ultima s’è infatti appropriata di un tesoro
dimenticato dagli umani, un libro di fiabe. Torna dunque il tema del libro, in
generale l’importanza della cultura. È proprio dal libro, dalla conoscenza, che
vedrà la luce il desiderio di ribellione e di innalzamento di Yoona, e avrà
inizio l’ascesi di Sonmi. In un mondo che è prossimo alla fine della sua
storia, Sonmi deve letteralmente imparare a pensare, e a venirle in aiuto sarà
Hae-Joo Im, giovane universitario e comandante dell’Unione, un’organizzazione
ribelle che si propone di usare gli artifici (gli esseri umani clonati, gli
schiavi come le serventi) per scatenare una rivoluzione.
Doona Bae as Sonmi-451
Jim Sturgess as Hae-Joo Im (nel film chiamato "Chang",
ma nel libro Chang è un altro personaggio)
Anche qui si stabilisce un legame con le vicende precedenti,
a partire dal fatto che Sonmi e Hae-Joo guardano un film intitolato “La
tremenda ordalia di Timothy Cavendish” (sì, è esattamente quella storia di cui si è già parlato). Inoltre Sonmi, oltre a
possedere la voglia a forma di cometa, ha un déjà vu che rimanda nientemeno che
alla vicenda di Luisa Rey. C’è inoltre – e questo vale in generale anche per
gli altri racconti – un ritorno dei luoghi: le Hawaii, per esempio, ma anche
Swannekke, il sito in cui si trova la centrale nucleare nella vicenda di Luisa
Rey.
Interessante è anche l’accenno ai sogni come “luoghi dell’anima”,
in cui siamo altre anime, in altri tempi e in altri posti. Estrapolo una
citazione anche da qui, una citazione che è un po’ ciò che regge non solo
questa storia ma tutto il libro, nonché tutta la storia dell’umanità:
“In principio, c’è
l’ignoranza. L’ignoranza genera paura. La paura genera odio, e l’odio genera
violenza. La violenza crea altra violenza, finché l’unica legge diventa ciò che
viene stabilito dal più forte.”
A partire da questo assunto si giunge a un finale che non
rivelo ma che mi ha lasciato a bocca aperta, nonché abbastanza amareggiata,
essendo tra l’altro diverso rispetto alla versione che ne danno nel film. Ma su
questo tornerò fra qualche riga, ora è tempo di parlare dell’ultimo racconto:
“Sloosha Crossing e tutto il resto”.
Questo è il solo racconto che viene presentato in soluzione
continua, e fa da spartiacque con la seconda metà del volume. L’ambientazione è
quella, già trovata, delle Isole Hawaii (anzi, Hi-Uay). Siamo però nel lontano
futuro, dopo la Caduta
dell’umanità (in seguito, verrebbe da dire, a una catastrofe nucleare): il
mondo è tornato quasi interamente a uno stato tribale, in cui permangono
tuttavia elementi della cultura e del linguaggio delle civiltà passate, ormai
ridotte a leggende. Una di queste leggende è Sonmi, elevata al rango di
divinità e venerata dalle popolazioni delle isole.
La vicenda è quella di Zachry, un giovane pastore che perde
il padre e il fratello in seguito all’agguato di una tribù rivale. Innumerevoli
sono in questo caso i rimandi alla religione cristiana, uno su tutti è
rappresentato dai nomi stessi dei personaggi, quasi tutti nomi biblici: abbiamo
Zachry, e poi Adam, e poi i nomi delle tribù: Kona e Abel. Impossibile non
notare l’assonanza con Caino e Abele, e il conseguente rimando al fratricidio.
Tuttavia, la filosofia predominante è derivata dall’antico buddhismo.
Oltre a queste tribù quasi selvagge, tuttavia, v’è un’altra
popolazione: i cosiddetti Prescienti. Esseri dalla pelle perfetta, scura, molto
simili fra loro, dotati di una propria lingua e di una tecnologia molto
evoluta. Una donna della tribù dei Prescienti, Meronima, sceglie di trascorrere
un po’ di tempo nella tribù di Zachry ufficialmente a fini di studio. Proprio
nella borsa di Meronima, Zachry trova un “uovo d’argento”, una sorta di
proiettore, in cui vede la storia di Sonmi-451 come era stata registrata, molti
secoli prima, dall’Archivista. Meronima chiede dunque di essere accompagnata
sul Mauna Kea, la cima più alta dell’isola, in cui si dice dimori il diavolo.
Zachry si offre di andare con lei, e io non rivelo ciò che troveranno in cima
alla montagna. Mi limito, come sempre, a rimarcare quel concetto di speranza
che pure ritorna sempre, con una citazione:
«[…]Ascolta, selvaggi
e civilizzati non sono separati da tribù, da credenze o da montagne, no, ogni
essere umano è tutte e due le cose. Gli Antichi possedevano la Forza delle divinità, ma
erano pure selvaggi come sciacalli, ed è questo che ha generato la Caduta. Ho conosciuto selvaggi
nel cui petto pulsa uno splendido cuore civilizzato. Forse pure qualche Kona.
Non così tanti da condizionare l’intera tribù, ma chissà, un giorno forse? Un
giorno.»
‘Un giorno’ era una
minuscola speranza, più piccola di una pulce.
«Sì,» ricordo che Meronima
ha detto, «ma non è mica facile sbarazzarsi delle pulci.»
Tom Hanks as Zachry
Halle Berry as Meronima
Questo è lo stesso concetto che viene espresso da Adam Ewing
esattamente alla fine del libro. Ogni azione, in qualche modo, è legata al futuro e lo influenza: sia esso futuro prossimo, o futuro di centinaia d'anni.
Io spero davvero, se siete arrivati a questo punto, di
essere stata abbastanza chiara in questa recensione. Come avrete capito si
tratta di un libro parecchio denso, dunque non facile né da commentare né da
riassumere. Il filo che lega i racconti, in effetti, è piuttosto sottile ma,
come avete visto, c’è. Ed è un filo che, bene o male, lascia dentro qualcosa.
Questo romanzo, infatti, ha il gran merito di fare riflettere: sull’anima, sul
futuro dell’umanità, sul suo passato, su tanti altri quesiti antichi quanto il
mondo e destinati, probabilmente, a rimanere irrisolti.
È interessante come, a un livello puramente strutturale, i
vari racconti siano contemporaneamente reali e fittizi. Sono fittizi poiché si
tratta di diari, lettere, narrazioni e film letti e guardati di volta in volta
dal protagonista del racconto successivo; sono reali nel momento in cui noi li leggiamo coi nostri occhi. Ci viene inoltre mostrato come gli esseri umani, nel
corso dei secoli e delle epoche storiche, restino fondamentalmente gli stessi
quando si parla di passioni e di sentimenti. Vi è un’unione di sacro e profano,
di amarezza e speranza. È un romanzo che va saputo leggere,ma che indubbiamente
è in grado di lasciare una traccia indelebile.
Prima di concludere vorrei spendere due righe sul film che i fratelli
Wachowski hanno tratto dal romanzo, per evidenziare delle cose che mi hanno colpito.
Intanto, eccovi la versione estesa del trailer:
Come lo stesso David Mitchell ci tiene a puntualizzare, film
e libro sono due cose diverse: il
libro è una matrioska, il film un mosaico. Va detto che lo spirito del libro viene
generalmente rispettato, tant’è che a me è piaciuto molto anche il film, ma che la pellicola si comprende totalmente soltanto se si è letto il libro. C’è inoltre una differenza sostanziale: nel film viene privilegiato di molto l’aspetto
romantico della vicenda, elemento questo che invece non è fondamentale nel
libro, anzi. Nel caso, per dire, di Sixsmith e Frobisher, viene largamente
fatto intuire che fossero innamorati ma non viene mai esplicitato direttamente.
Ancor di più diventa evidente con Hae-Joo e Sonmi, quando la risposta che Sonmi
dà all’Archivista che le chiede se fosse innamorata di Hae-Joo si rivela essere
completamente diversa.
A proposito di Hae-Joo Im, è stata molto criticata ai
Wachowski la scelta di non prendere un attore orientale per il ruolo. A me
invece è parso naturale, perché ho interpretato fin da subito i lineamenti
“meticci” di Hae-Joo come il naturale risultato dell’evoluzione dell’uomo in un
mondo sempre più globalizzato. E anzi, trovo interessante il fatto che gli
organismi clonati, come le serventi, abbiano invece tratti orientali puri, in
quanto tale più “antichi”: paradossalmente, nel mondo futuristico immaginato da
David Mitchell, è quell’umanità “meticciata” nei secoli ad essere chiamata
“purosangue”, mentre i geni antichi e “non mescolati” delle serventi danno
origine a creature che nascono per essere praticamente ridotte in schiavitù.
I dati del libro, per chi fosse interessato all’acquisto:
Titolo: “Cloud
Atlas”
Autore:
David Mitchell
Editore:
Frassinelli
Pagine: 599
Prezzo:
14,90 €
E visto che per questa volta direi di avere blaterato
proprio abbastanza, mi auguro che abbiate gradito la recensione (se ce l’avete
fatta ad arrivare fin quaggiù, tanto di cappello)!