lunedì 26 agosto 2013

Nessuno sa di Noi

Ed eccomi qui (finalmente!) a chiacchierare un po’ di un libro uscito a gennaio dello scorso anno, quinto finalista del premio Strega 2013. Si tratta di:



NESSUNO SA DI NOI

di Simona Sparaco




La parte biografica, questa volta, sarà particolarmente breve. Come ci dice il sito ufficiale Giunti, nonché la quarta di copertina del libro, Simona Sparaco nasce a Roma, è laureata in Scienze della Comunicazione e ha frequentato corsi di scrittura creativa e il master della scuola Holden di Torino. Per Newton Compton ha pubblicato i romanzi “Bastardi senza amore” e “Lovebook”. 



Non starò a sindacare su come la penso circa i corsi di scrittura, né sul merito o meno che aveva il libro di stare allo Strega o su quanto sia o non sia letteratura. C’è gente che l’ha fatto meglio di me, basta cercare su Google per accorgersene. E comunque, sempre di un libro si tratta. Un libro che a me tra l’altro è anche piaciuto.
Ecco qui la trama fornita dall’editore:

Quando Luce e Pietro si recano in ambulatorio per fare una delle ultime ecografie prima del parto, sono al settimo cielo. Pietro indossa persino il maglione portafortuna, quello tutto sfilacciato a scacchi verdi e blu delle grandi occasioni. Ci sono voluti anni per arrivare fin qui, anni di calcoli esasperanti con calendario alla mano, di ''sesso a comando'', di attese col cuore in gola smentite in un minuto. Non appena sul monitor appare il piccolo Lorenzo, però, il sorriso della ginecologa si spegne di colpo. Lorenzo è troppo ''corto''. Ha qualcosa che non va. ''Nessuno sa di noi'' è la storia di un mondo che si lacera come carta velina. E di una donna di fronte alla responsabilità di una scelta enorme. Quale è la cosa giusta quando tutte le strade portano a un vicolo cieco? Che cosa può l'amore? E quante sono le storie di luce e buio vissute dalle persone che ci passano accanto? Come le ricorderanno le lettrici della sua rubrica e le numerose donne che incontra sul web, Luce non è sola.

Si tratta, come ho detto, di un romanzo che ho trovato meritevole e che viene ricordato, a ragione, forse più per il tema che tratta (quello difficilissimo dell’aborto terapeutico) che per lo stile in cui è narrato.
L'antefatto della vicenda è un'ecografia che mostra un bambino "troppo corto". La protagonista è una giovane mamma che ha la speranza nel nome: Luce. Il suo bambino, Lorenzo, quel bambino "troppo corto", lei l'ha disperatamente cercato e voluto, attraverso rapporti controllati, terapie, consulenze. Alla fine è arrivato lui, inaspettato, e su di lui sono riposte tutte le speranze di lei. Finalmente sarà una donna completa, una donna come tante altre, non dovrà più sentirsi inferiore a chi magari di figli ne ha già due e, sotto sotto, la guarda con pietà. 
L'handicap di Lorenzo crolla su di lei e sul suo compagno, Pietro, come una spada di Damocle: non si sa se il bambino sopravvivrà al parto e, anche se ce la facesse, andrebbe incontro a una vita di sofferenza. Il problema è che Luce è già al settimo mese di gravidanza, ben oltre il termine consentito per un'interruzione: secondo la legge italiana, non può abortire. Lei e Pietro devono prendere la decisione più difficile di tutta la loro vita: condannare Lorenzo a una vita di sofferenza oppure rivolgersi all'estero e non fargli vedere mai la luce. La decisione deve essere presa in fretta e, in qualunque caso, sarà tragica. Luce sceglie di non dare alla luce il bambino. E questa è la prima parte del romanzo, la storia dolorosa di una discesa all'inferno.

Ma poi c'è la seconda parte, quella più toccante, più intensa, quella che ti scava dentro. C'è il momento dell'apatia, quel disperato chiedersi se le cose sarebbero potute andare diversamente. C'è il dolore buio, sordo, quel senso di vuoto e di incompletezza, il fantasma di un bambino che non ti lascia, ciò che sarebbe-accaduto-se... e il dolore della madre, il dolore che lei sola può comprendere perché lei sola ha avuto il bambino nella pancia, rischia di mandare a rotoli tutto ciò che lei si è costruita: il lavoro, le amicizie, l'amore di Pietro. Proprio lui, come dice il nome, è la vera roccia: si sforza sin da subito di reagire, di confortare Luce, è il suo paracadute. E soffre in silenzio, piange da solo la morte di quel figlio che sempre da solo ha avuto il coraggio di vedere, dopo l'induzione del parto. Luce, nella sfortuna, è stata fortunatissima ad averlo accanto. Inconsciamente, la consapevolezza della presenza del compagno è ciò che la spinge a crogiolarsi nel suo dolore, a non trovare né la forza né il desiderio di uscirne. Tuttavia, la redenzione arriva. Pian piano il dolore spinge per essere buttato fuori. Lei che s'era chiusa in casa, lei che piangeva, lei che non lavorava neppure più e che temeva il giudizio e gli occhi della gente, trova la forza di rivelare al mondo la sua perdita, davanti a perfetti estranei. Riesce finalmente a liberarsi, in un attimo splendido di catarsi che segna la sua rinascita. Il suo è un mettere al mondo se stessa, un divenire genitrice di se stessa e non più soltanto figlia tradita da una madre troppo fredda. S'accorge dei sentimenti di Pietro, riescono di nuovo ad abbattere il muro, a comunicare. Riscopre di avere una madre, cresce fino al punto di mettersi nei suoi panni, di capire che anche sua madre le ha voluto bene, a modo suo. Una madre imperfetta, sì, ma un essere umano. Luce comprende che gli esseri umani sono imperfetti, cercano di stare a galla sulle proprie ombre, di tendere le mani per afferrarne altre, e sollevarsi. Il dolore che ha provato le è servito, poiché è la sofferenza che serve, non la felicità. Tramite il dolore si cresce, e il sacrificio di Lorenzo è servito a lei per partorire la "nuova Luce". 
Questo romanzo è una storia di madri, coraggiose e imperfette, ognuna con le proprie decisioni da prendere, il proprio modo di vedere l'esistenza. Spesso sono madri senza volto, come le sconosciute che Luce conosce tramite lettere e forum, unite da un dolore simile e dalla stessa solidarietà. Oppure madri troppo fredde, come quella di Luce, incapaci di esprimere il proprio affetto e perse dietro un amore perduto. Madri che aspettano, come nonna Iolanda, nella vita come nella malattia e nella vecchiaia. Aspettano di tornare al grembo, in quel luogo dove tutto inizia. E poi madri come quella di Pietro, attente alle apparenze, forse troppo gelose e possessive, ma che sanno all'improvviso regalare gesti di inaspettata gentilezza. È una storia di madri che cercano di fare del loro meglio, magari sbagliando, che fanno di tutto per non rimpiangere le proprie scelte. Una storia di rinascita, narrata con grande sensibilità. Un libro coraggioso, che tocca un tema etico particolarmente vivo e importante. 

Concludo con un breve video, contenente un’intervista all’autrice. Potete vederlo a questo link (chiedo scusa, ma non riuscivo a incorporarlo nel blog direttamente): http://www.youtube.com/watch?v=-NVRY1puW0k
Di seguito, i dati del libro:

Titolo: “Nessuno sa di noi”
Autrice: Simona Sparaco
Editore: Giunti
Pagine: 252
Prezzo: 12,00 €


Vi ringrazio dunque per avermi letto anche questa volta, alla prossima recensione!

martedì 4 giugno 2013

Il piccolo lord Fauntleroy


C’era una volta un bambino buono, bello e biondo che si chiamava Cedric Errol.
E immagino che ci sia ben poco da aggiungere circa l’identità del libro che mi accingo a recensire questa volta. Si tratta, infatti, di un ben noto classico per ragazzi da cui sono stati tratti, tra l’altro, un famoso film interpretato da Alec Guinness e da un giovanissimo Rick Schroder, e un cartone animato di cui, come per “Anna dai capelli rossi” vi propongo la sigla.


Sto parlando, ovviamente, de…

IL PICCOLO LORD FAUNTLEROY
di Frances Hodgson Burnett

“Il piccolo lord”, titolo originale “Little Lord Fauntleroy”, esce per la prima volta su rivista nel 1885, per poi essere raccolto in volume un anno dopo. L’autrice, Frances Hodgson Burnett, nasce nel 1849, in una cittadina nei pressi di Manchester. È la terza di cinque figli, in una famiglia della media borghesia, e conduce una vita agiata. In seguito alla morte del padre, però, le loro entrate economiche si riducono e la madre si vede costretta a trasferirsi coi figli a casa di parenti prima e, in seguito, nelle vicinanze di un’area urbana sovrappopolata e povera.

Frances Hodgson Burnett da giovane

La piccola Frances ha fin da bambina un’immaginazione vividissima, già da allora scrive brevi storie che annota su quaderni. Uno dei suoi libri preferiti è “La capanna dello zio Tom”, di cui si divertiva a recitare delle scene. Circa i suoi racconti e le sue letture, pubblico d’eccezione furono la madre e i fratelli (che pure non mancavano di prenderla in giro). Frances frequenta la scuola fino ai quindici anni. Nel 1863, in seguito alla crisi economica che investe Manchester dopo la Guerra Civile Americana, la madre di Frances viene contattata dai suoi parenti in America, che la invitano a raggiungerli in Tennessee con la famiglia. Lei accetta, vende ciò che restava delle loro attività e si stabilisce negli Stati Uniti due anni dopo, assieme ai figli.
La vita in Tennessee si rivela non semplice per la famiglia, poiché anche l’attività dello zio di Frances fallisce e non ci sono quasi entrate. Si trasferiscono a vivere in una casa che Frances soprannomina “Arca di Noè, monte Ararat”. Di fronte a loro vive la famiglia Burnett, e Frances fa amicizia col giovane e malaticcio Swan Burnett, iniziandolo alla lettura di autori come Dickens, Walter Scott e Thackeray. La ragazza inizia intanto a scrivere con lo scopo di guadagnare qualcosa, nel 1868 pubblica su rivista il suo primo racconto e diviene presto collaboratrice fissa di vari periodici. Vuole scappare dalla povertà e spesso si sovraccarica di lavoro, sentendosi come una vera macchina per la scrittura. Ben presto riesce a guadagnare abbastanza da permettere alla famiglia di trasferirsi in una casa migliore. Nel 1870 muore sua madre e nel giro di pochi anni tre dei suoi fratelli si sposano. Circa lei e Swan, invece, nessuno dei due ha particolare fretta. Si sposano comunque nel 1874 e un anno dopo lei dà alla luce il loro primo figlio, Lionel. La famiglia vive praticamente sulla scrittura di lei, malgrado Swan si stia specializzando come medico. Viaggiano in Europa, tornando in Inghilterra e a Parigi. Nasce poi il loro secondo figlio, Vivian.
Per fare economia, Frances (e ne faccio cenno perché è un particolare che chi ha letto “Il piccolo Lord” ritroverà senz’altro) cuce i vestiti dei figli e di se stessa, spesso riempiendoli di fronzoli e velluti. Inoltre, permette ai figli di tenere i capelli lunghi, di modo che possano essere acconciati a boccoli.
Dopo due anni a Parigi, la famiglia torna in America. Suo marito può dunque iniziare la sua carriera come medico, mentre lei diviene sempre più richiesta come scrittrice, al punto da aver bisogno di aiuto per gestire i suoi affari. Nel 1879 incontra Louisa May Alcott e inizia a scrivere novelle per l’infanzia.

Louisa May Alcott

Tuttavia, a seguito dei gravosi impegni come scrittrice e casalinga al tempo stesso, coi figli da crescere e il marito a cui badare, inizia a soffrire di depressione ed esaurimento nervoso.

Nel 1884 inizia a lavorare a “Il piccolo Lord”, che verrà pubblicato in volume due anni dopo. La figura del protagonista Cedric è ovviamente ispirata a quella del suo figlio minore Vivian, e il libro ottiene così tanto successo da essere tradotto in ben dodici lingue. Ne segue un adattamento non autorizzato per il teatro, cui lei risponde (dopo aver vinto la causa giudiziaria) con un altro adattamento scritto di suo pugno: la rappresentazione sarà un successo e le porterà tanti guadagni quanto quelli del libro. Nel 1887 approfitta del Giubileo della Regina Vittoria per visitare l’Inghilterra insieme ai figli; da quel momento vi ritornerà annualmente. Nel 1890, invece, deve affrontare un nuovo grande lutto che le causa una nuova, profonda depressione: la morte del figlio maggiore Lionel a causa della tubercolosi. Deve, inoltre, sopportare la preoccupazione per le sue finanze: due case, una a Washington e una a Londra, più la retta universitaria del figlio Vivian. Si butta allora di nuovo sulla scrittura come fonte di guadagno, pubblicando una serie di pregevoli romanzi storici. Vivian si laurea a Harvard nel 1898, e quello stesso anno lei divorzia da Swan Burnett. Non si tratta di una decisione affrettata, bensì di qualcosa che lei e l’ex marito avevano concordato ormai da anni; nonostante ciò, viene aspramente criticata dalla stampa poiché con questo gesto lei viene meno ai suoi doveri di moglie e manifesta una forte emancipazione circa i diritti delle donne. Lei, per tutta risposta, si trasferisce in Inghilterra. 

Va ad abitare alla Great Maytham Hall, luogo magnifico che le ispirerà l’ambientazione di un altro suo grande successo: “Il giardino segreto”.


La Great Maytham Hall

Nel febbraio del 1900 si risposa con Stephen Townsend, dieci anni più giovane di lei e di professione attore, che va a vivere alla Maytham Hall. Il matrimonio avviene in Italia, a Genova, e si rivela un grosso errore nella vita della Burnett. La stampa, ovviamente, va a nozze coi particolari scandalistici del matrimonio, quali la differenza di età e il fatto che Townsend le facesse praticamente da segretario. Inoltre, l’uomo l’aveva sposata per palese interessi: lei aveva un nome, una fama, aveva i soldi e poteva essere la giusta spinta alla sua carriera di attore. Il matrimonio finisce due anni dopo, nel 1902, con la Burnett che ritorna in America ed entra in sanatorio per curarsi. Continua poi a viaggiare fra America ed Inghilterra, scrivendo, guadagnando e spendendo denaro in abiti costosi, una vita stravagante e anche una casa alle Bermuda, dove trascorre periodi di vacanza. In seguito si stabilisce definitivamente a New York, dove muore a 74 anni, il 29 ottobre 1924.

Frances Hodgson Burnett

Venendo ora al libro, di cui si trovano in commercio diverse edizioni (io ne posseggo una cartonata e illustrata degli anni ’70), ecco qualche riga di una trama che pure tutti conosceranno:


Cedric Errol è un giovane di nobile famiglia inglese. Il fatto di essersi sposato con un'orfana americana contro il volere del padre lo esclude dall'eredità paterna, ma questo non gli impedisce di trasferirsi a New York e di condurre un'esistenza felice, anche se breve, con la moglie e il figlio Cedric jr. Cedric muore infatti dopo breve tempo e il bambino viene cresciuto dalla madre finché il nonno, essendo rimasto senza eredi, decide che il piccolo deve avere un'educazione come si conviene a un piccolo lord e lo riporta in Inghilterra con il permesso della madre. Il nonno, che lo aveva voluto vicino a sé solo per orgoglio, cambierà opinione sia su di lui che sulla madre.


Nel parlare della ricezione di questo romanzo, bisogna anzitutto dire che il successo fu immediato ed elevatissimo. La scrittrice per l’infanzia Polly Horvath scrive addirittura che “Il piccolo lord” fu l’“Harry Potter” dei suoi tempi e questo rende bene fino a che punto la storia di Cedric Errol fosse popolare. Il successo, oltretutto, non rimase confinato al mero ambito letterario ma si spinse anche oltre, nel mondo della moda. I completini di velluto del piccolo Cedric, peraltro ispirati a quelli che Frances cuciva per i figli, i tagli delle sue camicie, i capelli lunghi arricciati a boccoli, divennero un must  per i bambini della borghesia di inizio XX secolo.
A questo contribuirono anche le numerose illustrazioni, gli adattamenti teatrali e in seguito le trasposizioni cinematografiche, di cui l’ultima, recentissima, risale addirittura al 2012: trattasi di una miniserie televisiva tedesca in cui, al posto del piccolo Cedric, troviamo una ragazzina.

Cartolina pubblicitaria dell'adattamento cinematografico del 1914,
con Mary Pickford nel ruolo del Piccolo Lord

Si segnalano, inoltre, le trasposizioni del 1914 (con Mary Pickford nel ruolo di Cedric), quella del 1936 (con Freddie Bartholomew, Dolores Costello e Sir Charles Aubrey Smith) e quella, famosissima e già citata, del 1980 di cui vi lascio una scena. Ecco inoltre le foto dei principali interpreti qui nominati.

Sir Charles Aubrey Smith nei panni del nonno di Cedric

Freddie Bartholomew e Dolores Costello
nei ruoli del Piccolo Lord e di sua madre

Mary Pickford






















Venendo al romanzo, è una lettura in sé davvero piacevole, perfetta in particolare per il periodo natalizio (e allora perché sto recensendo ora, vi chiederete voi?). C’è un elemento, tuttavia, che non convince: lo stesso protagonista, il giovane Cedric Errol lord di Fauntleroy. È un bambino semplicemente perfetto, al punto da risultare irreale: più un angelo da dipinto che un essere umano. Biondo, bello, nobile d’animo, pieno di umiltà e di bontà a livelli non raggiunti neanche da Pollyanna (ma su di lei tornerò in seguito, che si merita un discorso approfondito e a parte), il piccolo lord Fauntleroy è un concentrato di virtù morali e di innate qualità, ivi comprese un’innata eleganza e prontezza di spirito. Riesce, con la sua sola presenza, a tramutare anche il burbero nonno in un modello di altruismo. Insomma, abbiamo qui un bambino di sette anni in odor di santità... che riesce comunque ad essere, in un qualche strano modo, adorabile. Forse perché, essendo consapevoli di ciò che si sta leggendo e cercando esattamente quello, a certe ingenuità e al buonismo di fondo si è disposti a passarci sopra. Seriamente, cosa sarebbero le mie domeniche senza la compagnia di questi orfanelli? Davvero il libro si legge che è un piacere: perché al di là di tutto, un po' di buoni sentimenti ogni tanto non guastano proprio e anzi, sono terapeutici. Interessante, e attuale per l'epoca in cui il romanzo venne scritto, lo spunto di riflessione circa i contrasti fra la società inglese - monarchica e conservatrice - e quella americana. Un contrasto che l'autrice, inglese emigrata in America, doveva sentire molto da vicino e che è rappresentato perfettamente dal contrasto fra il personaggio del nonno e del signor Hobbs, il droghiere amico di Cedric: entrambi vecchi, entrambi testardi ed arroccati sulle proprie posizioni.
Per concludere, vorrei segnalare questa citazione (tratta ovviamente dalla mia edizione):

"Un giorno egli condusse il nipote in vetta a una collina e lo invitò a guardarsi intorno. 
- Vedi, Fauntleroy, tutto quello che si scorge da qui, terre e cose, tutto appartiene a me. E un giorno ogni cosa sarà tua. Non soltanto queste terre, ma altre e altre che non hai visto ancora. 
- Saranno mie? E quando? 
- Quando io morrò. 
- Allora, non le voglio, non voglio nulla! Non voglio che voi moriate! Voi dovete star qui con me, sempre. 
- E' un pensiero molto affettuoso eppure, nonostante il tuo voto, il momento verrà; è fatale. E tu sarai allora il nuovo Duca di Dorincourt."


Ricorda niente?





Segnalo infine i dati di una delle edizioni in commercio, quella Rizzoli:


Titolo: “Il piccolo lord Fauntleroy”
Autore: Frances Hodgson Burnett
Editore: Rizzoli
Pagine: 264
Prezzo: 8,90 €

Grazie dunque per avermi letto anche questa volta e scusare per il ritardo! Sarò più veloce con la prossima recensione!

sabato 16 marzo 2013

Il Risveglio


Dadadadan! E finalmente sono riuscita a tornare con una nuova recensione! Dico la verità, sono stata un po’ in dubbio su quale libro trattare questa volta: non volevo tornare su un libro per ragazzi avendo commentato “Anna dai capelli rossi” qualche post fa, non volevo di nuovo Fenoglio perché pure lui è già stato fatto e ci sono nuovi autori da proporre, non volevo niente di troppo pesante essendo ancora “traumatizzata” da Cloud Atlas (che tra l’altro forse dovrò riprendere in mano per una relazione da presentare all’università…). Insomma, bel dilemma.

Alla fine ho deciso di buttarmi su un’autrice che è stata recentemente ristampata in Italia, o perlomeno mi è parso di vedere alcuni suoi volumi in bella vista in libreria qualche mese fa. Trattasi di un’elegante signora statunitense morta ormai più di un secolo fa. Trattasi di Kate Chopin.





Katherine O’Flaherty nasce nel 1851 a St. Louis, attuale Missouri, e ivi muore nel 1904. Suo padre, come già il cognome fa intuire, era originario della cittadina irlandese di Galway. Da parte di madre, invece, aveva ascendenze franco-canadesi e l’orgoglio di antenati che erano stati fra i primi europei a contribuire alla colonizzazione dell’Alabama. Katherine era la terza di cinque figli, ma lei fu l’unica a sopravvivere oltre i venticinque anni di età. La morte del padre, nel 1855, significò per lei lo stringersi del rapporto con la madre, con la nonna e con la bisnonna, oltre che l’inizio delle sue letture: favole, poesie, allegorie religiose, romanzi sia classici che contemporanei.
A vent’anni, nel 1870, sposa Oscar Chopin: l’uomo è quello che oggi si potrebbe definire “piccolo imprenditore” nel settore del cotone, e lei a ventotto anni gli ha già dato sei figli. Oscar Chopin morirà nel 1882, lasciando la moglie piena di debiti. Nonostante il tentativo di Katherine di tenere in piedi gli affari del marito, si vedrà alla fine costretta a tornare a St. Louis dalla madre, che morirà l’anno successivo. La Chopin, a seguito dei due vicini lutti, la morte del marito e della madre, inizierà a soffrire di depressione. Sarà il suo ostetrico e amico di famiglia Frederick Kolbenheyer a intuire per primo le potenzialità della scrittura come terapia, oltre che come fonte di guadagno.


Inizia così la carriera letteraria di Kate Chopin, sotto forma di racconti, articoli e traduzioni che ebbero subito un buon successo. Va detto, tuttavia, che divenne nota principalmente come scrittrice di racconti di color locale e le sue qualità letterarie rimasero sottovalutate.
Nel 1899 pubblica il suo secondo romanzo, “Il risveglio” (The Awakening), che viene aspramente criticato sia per la sua morale che per gli standard letterari. Questo e altri suo lavori erano infatti, per l’epoca, troppo “avanti”. Scoraggiata dalle critiche, la Chopin torna a scrivere soltanto racconti.
Muore a cinquantaquattro anni, nel 1904, a causa di un’emorragia cerebrale.
Il romanzo di cui si va a parlare questa volta, come avrete capito, è:


IL RISVEGLIO
di Kate Chopin


Cominciamo con la trama, come fornita dall’editore (nel mio caso l’edizione Marsilio del 1993, con testo a fronte):

Con questo romanzo (1899), dapprima dimenticato e poi divenuto testo sacro del femminile, si retrodata l'inizio ideale della modernità. Corrispettivo americano di Madame Bovary, Il risveglio narra la storia di un adulterio. Edna Pontellier, giovane e bella moglie di un uomo d'affari, madre di due figli, si innamora del giovane Robert. Divisa tra marito, figli e amante, costretta a confrontarsi con modelli femminili diversi, in conflitto con i modelli comportamentali imposti dal contesto sociale, Edna affronta alla fine una solitudine che si conclude con un gesto tragico e definitivo.


Come già accennato, il romanzo esce nel 1899 e viene, fortunatamente, rivalutato nel corso degli anni. Dagli anni ’50 in avanti viene tradotto in varie lingue, giapponese compreso, e adattato in altri formati tra cui almeno due film. Si segnalano in particolare “Grand Isle”, con Kelly McGillis nel ruolo di Edna, e “The End of August”. Di seguito il trailer di “Grand Isle”:



Inoltre, la Vaugh Dance Company ha prodotto nel 2008 un adattamento in danza moderna, “Reaching out for the unlimited”.


È interessante inoltre il fatto che, nonostante “Il risveglio” sia stato ai suoi tempi tacciato di immoralità e, in seguito, identificato come romanzo femminista, Kate Chopin non si considerasse né femminista né una suffragetta. Stando alle parole di David Chopin, suo nipote, la scrittrice si considerava “solo” una persona che ha sempre creduto nella forza delle donne.

Venendo ora al mio attesissimo (sì, come no!) commento, inizio col dire che questo romanzo ha un valore. Ha un valore non tanto per la vicenda in sé (alla fine si parla di un banalissimo adulterio), quanto per il contesto sociale in cui è stato scritto e per il fatto che la protagonista, Edna Pontellier, a conti fatti non venga affatto punita per il suo adulterio. Non si tratta, infatti, della “decostruzione” di una donna quale poteva essere ad esempio il “Madame Bovary” di Flaubert, bensì della crescita emotiva e spirituale di una donna che in comunque con Emma Bovary ha soltanto l’adulterio. Edna è più americana, più sicura di sé, più sorridente: arriva a scoprirsi come individuo e come “body” e a emanciparsi sempre più dall'ambiente in cui vive.
La vicenda si snoda nella sonnolenta e multietnica Louisiana di fine '800, tra Grand-Isle e New Orleans. Edna, appartenente a una benestante famiglia borghese, vive un'esistenza apparentemente perfetta, fra ricevimenti, un marito premuroso, due bambini da crescere e amiche con cui conversare. Tuttavia lei, proveniente dal Kentucky e di famiglia presbiteriana, non riesce ad abituarsi ai costumi più aperti e spontanei della gente di origine creola: fin dall'inizio è dunque una "outsider". Dimostra inoltre sentimenti ambivalenti non tanto per suo marito - sposato ben più per convenzione che per amore - quanto per i suoi stessi figli: un attimo è madre affettuosa, un attimo sembra lasciarli a loro stessi. Darebbe la vita per loro, dice, ma non se stessa. Edna si configura dunque come una donna intrinsecamente indipendente: l'amore per il bel giovane Robert prima e l'allontanamento di suo marito e dei figli poi, e in più la musica di Mademoiselle Reisz (musica che dona alla sua anima un linguaggio con cui parlare), finiscono col risvegliare la sua mente e i suoi sensi. Si rende conto di essere un individuo capace di pensare, di prendere decisioni, di reinventarsi: un individuo che non è forzatamente sottomesso a suo marito, che non è una sua proprietà (come le convenzioni del tempo auspicavano). Il risveglio del corpo di Edna, infine, avviene tra le braccia di Alcée Arobin. Lei diviene una donna che “si dà a chi le pare quando le pare”. Una donna capace di badare a se stessa, che non ha paura di uscire da sola di notte, che si dedica a lavori maschili come i traslochi, che dipinge con successo e dunque può iniziare a guadagnarsi da vivere senza dover dipendere dal suo sposo. Una donna finalmente presente a se stessa, raggiante pur se giudicata quasi pazza, autoconsapevole, che può baciare un uomo per piacere e non perché costretta. Il suo ultimo grande atto di affermazione, dopo la fine dell'amore, sarà il suicidio: un richiamo verso il mare, quel mare che avvolge tutto e che infine la abbraccerà come un amante. 

In tutto questo, la storia contiene dei passi di grande bellezza e suggestione, specie verso il finale. Si ha l'impressione che non accada nulla, il romanzo è piuttosto lento in effetti, ma il rumore e l'andamento sono un po' come le onde di un calmo mare all'alba, di quelle che si infrangono sulla battigia e paiono sussurrare. C'è, in realtà, un movimento che è tutto interiore.

E tuttavia c’è un ma. Malgrado infatti il valore e il senso dell’opera, malgrado io ne sia cosciente, non sono riuscita a entrare in questo romanzo. Lo stile è scorrevole ma fin troppo distaccato, finisce per tenere a distanza anche il lettore. Quanto a Edna, è indubbiamente uno splendido personaggio che si osserva e si comprende, ma che non lascia sviluppare nel lettore alcuna empatia. Inoltre, e questo ammetto che sia un limite mio, pur comprendendo perfettamente le differenze storiche, sociali, i diversi scopi, i diversi risultati, comprendendo insomma che non c'entrano niente uno con l'altro se non superficialmente, a me “Il risveglio” sa troppo di “Madame Bovary”: alla lunga questo provoca una certa fastidiosa sensazione di stanchezza e di “già visto”, che penalizza ulteriormente una lettura che già non punta sulla vivacità della narrazione.

I dati dell’opera, per chi volesse procedere all’acquisto:

Titolo: “Il risveglio”
Autore: Kate Chopin
Editore: Marsilio
Pagine: 392 (testo a fronte)
Prezzo: 19,00

È disponibile anche in libreria l’edizione del 2006 pubblicata da Galaad Edizioni, al prezzo di 12,00 €.

Io credo ragionevolmente di poter concludere qui. Ringrazio come al solito quanti hanno letto e mi scuso se ci ho messo un po’ con questa recensione. Con le prossime cercherò di essere più rapida.
Fatemi sapere, se avete gradito! Grazie mille e a presto!

martedì 19 febbraio 2013

Quando i vampiri temevano il sole


Ma buonasera a tutti! Comincio questa recensione che è più o meno l’una di notte, quindi forse sarebbe più appropriato augurarvi la buonanotte… ma andiamo avanti, tanto se state leggendo non siete qui per sentirmi sproloquiare (almeno, non così a caso)!
Per quanto riguarda la recensione di oggi, si cambia ancora genere: ho intenzione, come avrete intuito dal titolo, di andare a parlare di vampiri. Non tratterò tuttavia di vampiri di genere “moderno”, alla Twilight per intenderci, e neppure dei vampiri glamour di Anne Rice o del buon vecchio Dracula. E di cosa andrò a parlare, dunque?
Di un romanzo che del “Dracula” di Bram Stoker è figlio diretto e che riprende tutti i cliché della più classica caccia ai vampiri: paletti, collane di aglio, croci e acqua benedetta.
L’autore ha un nome che probabilmente ai più non dirà molto: si tratta infatti di tale Hugh Davidson.



E chi è Hugh Davidson? Hugh Davidson è in realtà lo pseudonimo dell’autore Edmond Hamilton, e qui già vedo gli occhi degli appassionati di fantascienza illuminarsi.
Edmond Hamilton è, infatti, uno dei pionieri del genere della Science Fiction. Nato a Youngstown, in Ohio, nel 1904, da una famiglia di origini borghesi, Hamilton si distinse fin da ragazzo per la sua propensione agli studi, nonché per il carattere estremamente introverso e sognatore. La sua carriera come scrittore di fantascienza iniziò nel 1926 col racconto “The Monster God of Mamurth”, che gli assicurò una collaborazione con l’editore Farnsworth Wright, lo stesso di scrittori del calibro di H. P. Lovecraft e Robert E. Howard. Autore estremamente prolifico, Hamilton pubblicò più di settantanove opere nel giro di ventidue anni. Fra di esse si ricordano le saghe: “La pattuglia dello spazio”, “I sovrani delle stelle” e, soprattutto, “Capitan Futuro”. Quest’ultima saga, pubblicata a puntate negli anni dal 1940 al 1951, venne tra l’altro adattata in anime nel 1978.

E visto che non mi par vero di avere una sigla anche stavolta, ovviamente propino ai nostalgici quella della versione italiana!



Intanto, nel 1946, Hamilton inizia a lavorare per la DC Comics, specializzandosi in storie per i personaggi di Batman e Superman. Sempre nel ’46 sposa la scrittrice Leigh Brackett, con cui comunque non collaborerà quasi mai a livello lavorativo. Al matrimonio erano presenti, tra gli altri, Ray Bradbury, Jack Williamson ed Henry Kuttner.
Edmond Hamilton o Hugh Davidson che dir si voglia, muore nel 1977 in seguito a complicazioni dopo un intervento ai reni.


In tutta questa storia, io non ho ancora rivelato di che libro si andrà a parlare stavolta. Non tutti sanno, infatti, che Hamilton fece anche incursione nel genere gotico, pubblicando un romanzo e un racconto con lo pseudonimo di Hugh Davidson e andando a trattare di vampiri. Io parlerò, come ormai si sarà capito, del romanzo:

IL SIGNORE DEI VAMPIRI
di Hugh Davidson



Il romanzo esce in America nel 1935 e giunge in Italia grazie alla Newton Compton.
Di seguito la trama fornita dall’editore:

Ecco una storia di sangue, d’amore e di morte, della quale è protagonista assoluto il Principe delle Tenebre. In questo romanzo, il Signore dei Vampiri, che ha infettato con il germe del vampirismo una regione montuosa dello Stato di New York, torna dopo duecento anni nella sua terra asservendo ai suoi fini un seguito di non-morti. Nonostante contro di lui si scateni una caccia spietata, sembra che nulla riesca a fermare il suo cammino e la sua opera di morte e distruzione, finché…

Si tratta, come si sarà intuito, di una storia che nasce sulla falsariga del “Dracula” di Stoker. Non ne raggiunge lo spessore, questo va detto, ma si tratta comunque di una storia estremamente godibile.
Trattandosi di un racconto datato 1935 si porta dietro com’è ovvio i suoi annetti, dunque bisogna partire con l’idea anzitutto che non si parla (purtroppo o per fortuna, dipende dai punti di vista) di vampiri nel senso moderno del termine. Anzi, gli ingredienti per una caccia ai vampiri delle più classiche ci sono tutti: la ragazza vampirizzata (riusciranno a salvarla? La risposta non è così ovvia!), il dottore esperto di occulto che si trova a dover indagare, paletti di frassino, acqua benedetta, ville abbandonate, croci e aglio a volontà. Malgrado dunque una certa prevedibilità nello svolgimento della vicenda, ciò che mi ha tenuto incollata alle pagine fino all’alba (perché non riuscivo a dormire e con un temporale in corso cosa c’è di meglio di un libro di vampiri?) è stato il ritmo serrato della narrazione. Complice infatti la brevità della storia, 160 pagine in tutto, non ci sono tempi morti e anzi si respirano una vivacità e una genuinità sorprendenti. Si capisce, insomma, che “Il signore dei vampiri” non ha mai aspirato a essere un capolavoro, ma un semplice divertissement. In questo caso, l’intento è perfettamente riuscito.
Il protagonista, il vampiro Gerritt Geisert, possiede un suo indubbio carisma. Notevole in particolare la scena in cui la truppa dei “buoni” si nasconde nella villa in rovina dove lui vive, con l’intento di trovare la sua bara; Geisert, appena sveglio, li nota e molla senza tanti complimenti due delle sue seguaci a combattere contro di loro, per poi andarsene tranquillamente e ricomparire poco dopo con la sua bara sottobraccio, pronto a fuggire (se la fuga gli riuscirà o meno, ve lo lascio leggere). Durante la sua permanenza nel villaggio, Geisert cerca ovviamente di crearsi un buon numero di seguaci, che a loro volta creano altri vampiri. Il suo intento è proprio quello di fondare un esercito in grado di opporsi agli umani, così da potersi riprendere le terre che un tempo gli appartenevano. Interessante è il fatto che Geisert non caccia direttamente, ma prende il sangue dai vampiri che crea man mano: questo li rende, a conti fatti, degli schiavi legati a lui e poco più che delle marionette (sia pure senzienti e dotate di una propria coscienza). Ad avermi interessato in particolare è stata la sottotrama dedicata ad Arthur Newton, un giovane del villaggio che sparisce misteriosamente per poi ricomparire vampiro. C’è qui un guizzo che contiene elementi della più moderna letteratura sui vampiri: un amore che, in qualche modo, trascende la morte stessa.
Trattasi dunque di un romanzo che io consiglio come lettura di intrattenimento, non imprescindibile ma interessante e vivace nel suo genere, senza ovviamente andare a confrontarlo con “Dracula” perché, come ho detto, questo non vuole essere un capolavoro né è nato per esserlo. Da leggere anche se ne avete abbastanza di storie alla Twilight, Vampire Diaries, ecc. e volete ritornare a una sana, serratissima caccia ai vampiri vecchio stile.
Detto questo, buona lettura!



Titolo: “Il signore dei vampiri”
Autore: Hugh Davidson
Editore: Newton Compton
Pagine: 160
Prezzo: 6,00 


giovedì 14 febbraio 2013

L'Atlante delle Nuvole

Ed eccoci alla quarta recensione, dedicata stavolta a un romanzo piuttosto particolare, di cui ho già praticamente rivelato il titolo lassù, nell’intestazione del post. Solo che ad alcuni suonerà più familiare se userò il titolo originale, che è poi quello utilizzato per la recente trasposizione cinematografica nonché per la ristampa del libro. E, visto che ci siamo, stavolta non c’è una sigla ma addirittura una colonna sonora!


Godetevi dunque il sestetto “L’Atlante delle Nuvole” di Robert Frobisher, mentre leggete una recensione che, come avrete capito, andrà a parlare di…

CLOUD ATLAS
di David Mitchell


Come al solito, due parole sull’autore: David Stephen Mitchell nasce in Inghilterra nel 1969. Ha scritto cinque romanzi, fra cui “Cloud Atlas”, che tra l’altro gli vale una nomination per il Booker Prize. Mitchell cresce in Worcestershire, frequenta la University of Kent e ottiene una laurea in letteratura inglese e americana, seguita da un master in letterature comparate.
Vive per un anno in Sicilia e per otto a Hiroshima, Giappone, prima di ritornare in Inghilterra. Attualmente vive in Irlanda, contea di Cork, con sua moglie Keiko e i loro due figli.
Mitchell soffre inoltre di balbuzie, e ha parlato del suo disturbo in un racconto semi-autobiografico dal titolo “Black Swan Green”. È inoltre uno dei patroni della British Stammering Association.



Riguardo a “Cloud Atlas”, è un romanzo dalla struttura molto particolare. Si tratta, infatti, di sei vicende intersecate fra loro come una matrioska, apparentemente slegate tranne che per piccoli rimandi (e ci vuole anche una discreta attenzione per riuscire a coglierli tutti).
Abbiamo, nello specifico:


- Il diario dal Pacifico di Adam Ewing
- Lettere da Zedelghem
- Mezze vite: il primo caso Luisa Rey
- La tremenda ordalia di Timothy Cavendish
- Il Verbo di Sonmi-451
- Sloosha Crossing e tutto il resto

Tutti i racconti, tranne l’ultimo, si interrompono esattamente a metà e passano alla vicenda successiva. La struttura è quella di un "1 2 3 4 5 6 5 4 3 2 1": “Sloosha Crossing e tutto il resto” funge da spartiacque, è da un lato l’elemento più piccolo della matrioska, dall’altro quello che racchiude tutte le altre storie.
Il romanzo è stato recentemente ristampato da Frassinelli, in occasione dell’uscita del film diretto dai fratelli Wachowski. Prima di passare dunque all’analisi dei singoli racconti e dei rimandi che li legano, ecco la copertina del romanzo nell’edizione che ho io e che riproduce la locandina del film:


Ecco la trama fornita dall’editore:

I sei protagonisti di "Cloud Atlas - L'atlante delle nuvole" vivono in punti e momenti diversi del mondo e del tempo, eppure fanno parte tutti di un unico schema, una specie di matrioska composta da sei personaggi uniti l'uno all'altro dal filo sottile e inestricabile del caso. Le loro anime si spostano come nuvole, passando dal corpo di un notaio americano di metà Ottocento, giunto su un'isola del Pacifico per assistere ai devastanti effetti del colonialismo, al giovane musicista che s'intrufola nell'esistenza di un celebre compositore belga tra le due guerre mondiali. Da un'intrepida giornalista che indaga sull'omicidio di uno scienziato antinucleare in piena guerra fredda, a un editore inglese in fuga dai creditori nella Londra anni Ottanta, sino a un clone schiavizzato nella Corea del prossimo futuro. Per arrivare infine all'alba del nuovo mondo - all'indomani dell'Apocalisse - e al suo primitivo, stupefatto abitante. I sei personaggi si trasformano vivendo avventure incredibili in un affascinante, inventivo viaggio nella Storia dalle grandi esplorazioni fino ai confini del mondo che verrà - e nell'anima stessa dell'uomo. Un romanzo generoso, un'apoteosi di sapori, colori e atmosfere che emoziona, stordisce e finisce dove tutto era iniziato. Un'epica storia del genere umano nella quale le azioni e le conseguenze delle nostre vite si intrecciano attraverso il passato, il presente e il futuro, mentre le nostre anime mutano cambiando per sempre il nostro destino.

Il primo dei racconti, come ho già accennato sopra, si intitola “Il diario dal Pacifico di Adam Ewing”. È ambientato nelle Isole Chatham nel 1850, e riprende la forma del diario di bordo. Ewing, un giovane notaio di San Francisco, si trova su una delle isole dell’arcipelago durante un viaggio per le Hawaii, e attende riparazioni alla sua nave. Durante il suo soggiorno assiste alla fustigazione dello schiavo Moriori Autua (provando pietà per lui), e conosce il dottor Henry Goose, un inglese che diventa ben presto suo unico amico e gli diagnostica un’infezione da parassiti. Si offre dunque di imbarcarsi sulla nave con Adam e di aiutarlo a guarire. Durante il viaggio, tuttavia, Ewing scopre che Autua s’è imbarcato clandestinamente; il Moriori lo prega allora di intercedere presso il capitano, in modo da convincerlo ad accettare i suoi servizi come marinaio. Ha, infatti, visto la pietà negli occhi di Adam durante la fustigazione e lo considera ormai un amico.
Questo è, in breve, il preambolo da cui la vicenda si snoda, senza dare ulteriori dettagli sulla trama del racconto per non rovinare la lettura a chi volesse approfondire.
Ecco le foto dei personaggi come sono mostrati nel film dei Wachowski:


David Gyasi as Autua
Jim Sturgess as Adam Ewing

Tom Hanks as Henry Goose

Lo stile di questo racconto, come ho detto, riprende quello dei diari di bordo. Da un lato, in effetti, le sei vicende sono altrettanti esercizi di stile: ognuna ne ha uno suo peculiare, che Mitchell è stato davvero bravo nel riprodurre. (Anzi, sarebbe molto interessante andare a leggere il romanzo in inglese, per godersi al meglio tutte le trovate e gli éscamotage linguistici utilizzati.) In traduzione, in effetti, questo racconto in particolare rende meno di quanto potrebbe: risulta un po’ forzoso l’inserimento di termini della lingua ottocentesca, e questo rallenta la lettura. Non che la traduzione sia fatta male, capiamoci, anzi leggendo qua e là qualche stralcio del romanzo in inglese l’ho trovata molto buona (anche perché tradurre un romanzo tanto denso non dev’essere lavoro semplice). Tuttavia, in una traduzione di per sé corretta, alcune parti avrebbero virtualmente potuto essere rese diversamente.
Andando a leggere anche la seconda parte del diario di Ewing, che poi è quello che va a chiudere il romanzo, si capisce però che proprio questo è il racconto in cui meglio si esplicita il senso dell’intero volume. Si parla di una società predatrice, Inglesi che sfruttano i Maori e Maori che sfruttano i Moriori. Il forte mangia, il debole soccombe, che si tratti di inganno o di pura forza bruta. Questo, nel racconto di Adam Ewing, viene esplicitato a chiare lettere.
E tuttavia ciò che c’è di bello, in questo come nelle altre vicende narrate, è che permane sempre una speranza, la speranza ossia che qualcosa possa cambiare.
Dalle ultime righe del racconto:


«[…]Ingenuo di un sognatore, Adam. Chi osa sfidare quell’idra dalle molte teste che è la natura umana paga il suo gesto con atroci sofferenze e con lui la sua famiglia! Quando esalerai l’ultimo respiro capirai che la tua vita altro non è stata che una piccola goccia in un oceano sconfinato!»
Ma cos’è l’oceano se non una moltitudine di gocce?


Col secondo racconto (“Lettere da Zedelghem”), che vede protagonista il giovane compositore Robert Frobisher, si fa un balzo in avanti nel tempo fino al Belgio del 1931. La forma è quella del romanzo epistolare, con lettere indirizzate da Frobisher al suo amico e amante Rufus Sixsmith, studente di Cambridge. 

Ben Whishaw as Robert Frobisher

James D'Arcy as Rufus Sixsmith

Robert Frobisher è un geniale quanto spiantato musicista, diseredato dal padre e tuttavia abbastanza furbo da riuscire a cavarsela con qualche espediente. Decide, per provare a cambiare le sue sorti, di lasciare l’Inghilterra e di dirigersi in Belgio, sulle tracce di una vecchia gloria della musica: Vyvyan Ayrs, vecchio compositore in ritiro, malato di sifilide e quasi cieco. Vuole offrirgli i suoi servigi come copista, in modo che possa tornare a comporre. Rendendosi conto del talento del ragazzo, Ayrs lo accetta nella sua vita: gesto, questo, che non sarà privo di conseguenze. Frobisher intreccerà una relazione sessuale con Jocasta, moglie di Vyvyan, e si innamorerà apparentemente ricambiato della loro figlia Eva (personaggio del tutto assente nella trasposizione cinematografica). Tutto andrà per il meglio, fino a che Frobisher non si troverà a dover scegliere fra il piegarsi alla dittatura di Ayrs e la propria reputazione. 

Jim Broadbent as Vyvyan Ayrs

Halle Berry as Jocasta Ayrs

In questo racconto lo stile si fa più fluido, vivace, amaramente ironico. Ne è complice il carattere di Robert, come anche la natura del suo personaggio stesso: è l’incarnazione dell’artista (tra l’altro, è lui a comporre il sestetto “Cloud Atlas”), un personaggio perennemente in movimento, in fuga  (bello il rimando alla “fuga” musicale). Il lessico, infatti, si fa ricchissimo di rimandi alla musica, all’orchestra, alla composizione. Il mondo è per Frobisher un mondo di suoni, di sinestesie, dove il colore e l’immagine stessi diventano musica. Stilisticamente, in effetti, è uno dei racconti più interessanti; viene accennato qui il concetto del “tutto torna”. La sinfonia che Ayrs intende comporre, ad esempio, si chiama “Eternal Recurrence”. È il concetto del girare in tondo, del percorrere gli stessi passi senza rendersene conto, del tornare negli stessi luoghi e del compiere le stesse azioni, non soltanto nella vita corrente ma anche in quelle anteriori e future. L’eterno ritorno che teorizzava Nietzsche.
C’è poi un rimando al primo racconto, poiché Robert trova e legge il “Diario dal Pacifico di Adam Ewing”. Fa la sua comparsa, inoltre, la voglia a forma di cometa che alcuni personaggi hanno sulla clavicola. Simbolo, pur se non viene mai esplicitato, dell’anima reincarnata. La cosa divertente è Mitchell non si limita a inserire un rimando al passato, ossia alla vicenda di Adam Ewing, ma anche un onirico rimando al futuro! Ossia a quello che, noi non lo sappiamo ancora, sarà il quinto dei racconti che compongono il volume.
Interessante anche un sottile rimando alla Genesi cristiana: dando per scontato che Frobisher sia proprio una reincarnazione di Adam (Adamo), si nota come in questa vita venga tentato da Eva: elemento, questo, che segnerà proprio l’inizio della sua caduta.

Il terzo racconto è: “Mezze vite: il primo caso Luisa Rey”.
Ambientato nella fittizia città californiana di Buenas Yerbas nel 1975, ha la struttura di un thriller e non essendo io particolarmente amante dei thriller è stato il racconto che mi ha entusiasmato meno.
La protagonista è Luisa Rey, una giovane giornalista che si trova, suo malgrado, coinvolta in un’investigazione su un caso più grande di lei. Si tratta infatti dei rapporti sulla sicurezza di una nuova centrale nucleare: malgrado i dati ufficiali, infatti, un rapporto redatto dal fisico Rufus Sixsmith dimostrerebbe che l’impianto è tutt’altro che sicuro e che anzi un guasto potrebbe provocare danni incalcolabili (si fa riferimento all’incidente di Three Mile Island, qui il Wiki: http://it.wikipedia.org/wiki/Incidente_di_Three_Mile_Island). Rufus Sixsmith è il primo legame col racconto precedente, e fra l’altro Luisa entrerà in possesso delle lettere di Frobisher, gelosamente conservate da Sixsmith. Tramite lui, comunque, la giornalista entra in possesso di una delle copie del rapporto che dimostra la pericolosità della centrale nucleare. Inizia così un’altra fuga per la vita.


Halle Berry as Luisa Rey



Il quarto racconto, “La tremenda ordalia di Timothy Cavendish”, è ambientato in Gran Bretagna ai giorni nostri. È un racconto in chiave comica – sia pure un poco amara – della vicenda di Timothy Cavendish, un piccolo editore che si trova, non senza colpa, minacciato da una banda di gangster. Con la scusa di proteggerlo, suo fratello lo fa rinchiudere in una sperduta casa di riposo dai confini invalicabili e sorvegliati dalla perfida infermiera Noakes. Da quel momento in poi, tutta la sua vita diventerà un rocambolesco tentativo d’evasione (l’ennesima fuga).


Hugo Weaving as Nurse Noakes
Jim Broadbent as Timothy Cavendish

Anche qui, c’è un rimando alla vicenda di Luisa Rey: Cavendish si trova fra le mani, e legge, proprio un manoscritto intitolato “Mezze vite: il primo caso Luisa Rey”. Diventa palese dunque che il legame fra i racconti è in primo luogo un legame letterario: i personaggi leggono le storie degli altri personaggi (o, in un paio di casi, le guardano). Questo si esplicita specie nella seconda parte del romanzo, dove la conclusione di un racconto rimanda direttamente all’incipit del successivo, creando uno splendido effetto a cascata che, fra l’altro, chiarifica molti punti oscuri e cattura il lettore rendendo la lettura dell’opera una vera discesa. Giunti alla seconda metà, infatti, si è perfettamente in grado di rimettere i tasselli a posto, la cesura fra un racconto e l’altro è meno netta e dunque la lettura risulta molto meno ostica: il meccanismo e gli stili sono ormai chiari, i mondi sono familiari e il lettore s’è abituato a fare i bagagli e a saltare dall’uno all’altro.
In questo racconto, il legame che emerge è anche quello dello spostamento: nel loro ripercorrere gli stessi sentieri, nel loro essere in fuga, in movimento, i personaggi prendono navi, prendono treni. I treni si fermano, ripartono, a intermittenze che ricordano quelle della stessa vita.
Timothy Cavendish, inoltre, si rivolge spesso direttamente a un ipotetico regista che dovrebbe trarre dalla sua storia un film. Elemento questo che sarà importante nella storia successiva.
Altri sottili rimandi legano Cavendish alla figura di Robert Frobisher. Non soltanto c’è un punto in cui chiama i suoi genitori “Mater” e “Pater”, come Robert, ma anche lui parla di un “atlante delle nuvole”:

“Cosa non avrei dato ora per una mappa immutabile dell’ineffabile sempre costante? Per possedere, per così dire, un atlante delle nuvole.”

Ecco dunque il concetto, di nuovo, dell’eterno ritorno come già l’aveva espresso l’eterno ragazzo Frobisher. Timothy invece è vecchio, ed è come se siano due facce della stessa medaglia. Uno giovane, l’altro anziano.

La penultima vicenda presentata è quella di Sonmi-451, ed è in assoluto la mia preferita. Siamo qui in ambito fantascientifico, in una Corea futuristica governata da una corpocrazia. Si tratta di un luogo in cui la sola religione esistente è ormai quella del denaro, una forma evoluta di società consumistica, dove i concepimenti, la morte, lo stesso corredo genetico degli individui vengono programmati e controllati. Una società, si scoprirà in seguito, che si regge sul tabù del cannibalismo (e di nuovo è sempre lo stesso concetto sotto altre forme: il forte mangia, il debole soccombe). La forma usata è quella dell’intervista, realizzata da un Archivista alla prigioniera Sonmi-451. Veniamo a scoprire che Sonmi è una cosiddetta “servente”, ossia un essere umano clonato le cui facoltà intellettive vengono ridotte al minimo e che viene utilizzato come schiavo nei lavori più umili. Queste serventi non sentono la necessità di farsi domande, non comprendono il mondo e il modo in cui vivono. Comprendono soltanto il trascorrere sempre uguale dei giorni, ma non hanno quello slancio interiore che spingerebbe una creatura dotata di ragione a ribellarsi. Sono poco più che degli automi, e tali vengono considerate.
Le giornate sempre identiche di Sonmi-451 vengono però spezzate da un’altra servente, Yoona-939. Quest’ultima s’è infatti appropriata di un tesoro dimenticato dagli umani, un libro di fiabe. Torna dunque il tema del libro, in generale l’importanza della cultura. È proprio dal libro, dalla conoscenza, che vedrà la luce il desiderio di ribellione e di innalzamento di Yoona, e avrà inizio l’ascesi di Sonmi. In un mondo che è prossimo alla fine della sua storia, Sonmi deve letteralmente imparare a pensare, e a venirle in aiuto sarà Hae-Joo Im, giovane universitario e comandante dell’Unione, un’organizzazione ribelle che si propone di usare gli artifici (gli esseri umani clonati, gli schiavi come le serventi) per scatenare una rivoluzione.

Doona Bae as Sonmi-451

Jim Sturgess as Hae-Joo Im (nel film chiamato "Chang",
ma nel libro Chang è un altro personaggio)

Anche qui si stabilisce un legame con le vicende precedenti, a partire dal fatto che Sonmi e Hae-Joo guardano un film intitolato “La tremenda ordalia di Timothy Cavendish” (sì, è esattamente quella storia di cui si è già parlato). Inoltre Sonmi, oltre a possedere la voglia a forma di cometa, ha un déjà vu che rimanda nientemeno che alla vicenda di Luisa Rey. C’è inoltre – e questo vale in generale anche per gli altri racconti – un ritorno dei luoghi: le Hawaii, per esempio, ma anche Swannekke, il sito in cui si trova la centrale nucleare nella vicenda di Luisa Rey.
Interessante è anche l’accenno ai sogni come “luoghi dell’anima”, in cui siamo altre anime, in altri tempi e in altri posti. Estrapolo una citazione anche da qui, una citazione che è un po’ ciò che regge non solo questa storia ma tutto il libro, nonché tutta la storia dell’umanità:

“In principio, c’è l’ignoranza. L’ignoranza genera paura. La paura genera odio, e l’odio genera violenza. La violenza crea altra violenza, finché l’unica legge diventa ciò che viene stabilito dal più forte.”

A partire da questo assunto si giunge a un finale che non rivelo ma che mi ha lasciato a bocca aperta, nonché abbastanza amareggiata, essendo tra l’altro diverso rispetto alla versione che ne danno nel film. Ma su questo tornerò fra qualche riga, ora è tempo di parlare dell’ultimo racconto: “Sloosha Crossing e tutto il resto”.
Questo è il solo racconto che viene presentato in soluzione continua, e fa da spartiacque con la seconda metà del volume. L’ambientazione è quella, già trovata, delle Isole Hawaii (anzi, Hi-Uay). Siamo però nel lontano futuro, dopo la Caduta dell’umanità (in seguito, verrebbe da dire, a una catastrofe nucleare): il mondo è tornato quasi interamente a uno stato tribale, in cui permangono tuttavia elementi della cultura e del linguaggio delle civiltà passate, ormai ridotte a leggende. Una di queste leggende è Sonmi, elevata al rango di divinità e venerata dalle popolazioni delle isole.
La vicenda è quella di Zachry, un giovane pastore che perde il padre e il fratello in seguito all’agguato di una tribù rivale. Innumerevoli sono in questo caso i rimandi alla religione cristiana, uno su tutti è rappresentato dai nomi stessi dei personaggi, quasi tutti nomi biblici: abbiamo Zachry, e poi Adam, e poi i nomi delle tribù: Kona e Abel. Impossibile non notare l’assonanza con Caino e Abele, e il conseguente rimando al fratricidio. Tuttavia, la filosofia predominante è derivata dall’antico buddhismo.
Oltre a queste tribù quasi selvagge, tuttavia, v’è un’altra popolazione: i cosiddetti Prescienti. Esseri dalla pelle perfetta, scura, molto simili fra loro, dotati di una propria lingua e di una tecnologia molto evoluta. Una donna della tribù dei Prescienti, Meronima, sceglie di trascorrere un po’ di tempo nella tribù di Zachry ufficialmente a fini di studio. Proprio nella borsa di Meronima, Zachry trova un “uovo d’argento”, una sorta di proiettore, in cui vede la storia di Sonmi-451 come era stata registrata, molti secoli prima, dall’Archivista. Meronima chiede dunque di essere accompagnata sul Mauna Kea, la cima più alta dell’isola, in cui si dice dimori il diavolo. Zachry si offre di andare con lei, e io non rivelo ciò che troveranno in cima alla montagna. Mi limito, come sempre, a rimarcare quel concetto di speranza che pure ritorna sempre, con una citazione:

«[…]Ascolta, selvaggi e civilizzati non sono separati da tribù, da credenze o da montagne, no, ogni essere umano è tutte e due le cose. Gli Antichi possedevano la Forza delle divinità, ma erano pure selvaggi come sciacalli, ed è questo che ha generato la Caduta. Ho conosciuto selvaggi nel cui petto pulsa uno splendido cuore civilizzato. Forse pure qualche Kona. Non così tanti da condizionare l’intera tribù, ma chissà, un giorno forse? Un giorno.»
‘Un giorno’ era una minuscola speranza, più piccola di una pulce.
«Sì,» ricordo che Meronima ha detto, «ma non è mica facile sbarazzarsi delle pulci.»

Tom Hanks as Zachry

Halle Berry as Meronima

Questo è lo stesso concetto che viene espresso da Adam Ewing esattamente alla fine del libro. Ogni azione, in qualche modo, è legata al futuro e lo influenza: sia esso futuro prossimo, o futuro di centinaia d'anni.
Io spero davvero, se siete arrivati a questo punto, di essere stata abbastanza chiara in questa recensione. Come avrete capito si tratta di un libro parecchio denso, dunque non facile né da commentare né da riassumere. Il filo che lega i racconti, in effetti, è piuttosto sottile ma, come avete visto, c’è. Ed è un filo che, bene o male, lascia dentro qualcosa. Questo romanzo, infatti, ha il gran merito di fare riflettere: sull’anima, sul futuro dell’umanità, sul suo passato, su tanti altri quesiti antichi quanto il mondo e destinati, probabilmente, a rimanere irrisolti.
È interessante come, a un livello puramente strutturale, i vari racconti siano contemporaneamente reali e fittizi. Sono fittizi poiché si tratta di diari, lettere, narrazioni e film letti e guardati di volta in volta dal protagonista del racconto successivo; sono reali nel momento in cui noi li leggiamo coi nostri occhi. Ci viene inoltre mostrato come gli esseri umani, nel corso dei secoli e delle epoche storiche, restino fondamentalmente gli stessi quando si parla di passioni e di sentimenti. Vi è un’unione di sacro e profano, di amarezza e speranza. È un romanzo che va saputo leggere,ma che indubbiamente è in grado di lasciare una traccia indelebile.

Prima di concludere vorrei spendere due righe sul film che i fratelli Wachowski hanno tratto dal romanzo, per evidenziare delle cose che mi hanno colpito. Intanto, eccovi la versione estesa del trailer:


Come lo stesso David Mitchell ci tiene a puntualizzare, film e libro sono due cose diverse: il libro è una matrioska, il film un mosaico. Va detto che lo spirito del libro viene generalmente rispettato, tant’è che a me è piaciuto molto anche il film, ma che la pellicola si comprende totalmente soltanto se si è letto il libro. C’è inoltre una differenza sostanziale: nel film viene privilegiato di molto l’aspetto romantico della vicenda, elemento questo che invece non è fondamentale nel libro, anzi. Nel caso, per dire, di Sixsmith e Frobisher, viene largamente fatto intuire che fossero innamorati ma non viene mai esplicitato direttamente. Ancor di più diventa evidente con Hae-Joo e Sonmi, quando la risposta che Sonmi dà all’Archivista che le chiede se fosse innamorata di Hae-Joo si rivela essere completamente diversa.
A proposito di Hae-Joo Im, è stata molto criticata ai Wachowski la scelta di non prendere un attore orientale per il ruolo. A me invece è parso naturale, perché ho interpretato fin da subito i lineamenti “meticci” di Hae-Joo come il naturale risultato dell’evoluzione dell’uomo in un mondo sempre più globalizzato. E anzi, trovo interessante il fatto che gli organismi clonati, come le serventi, abbiano invece tratti orientali puri, in quanto tale più “antichi”: paradossalmente, nel mondo futuristico immaginato da David Mitchell, è quell’umanità “meticciata” nei secoli ad essere chiamata “purosangue”, mentre i geni antichi e “non mescolati” delle serventi danno origine a creature che nascono per essere praticamente ridotte in schiavitù.

I dati del libro, per chi fosse interessato all’acquisto:
Titolo: “Cloud Atlas”
Autore: David Mitchell
Editore: Frassinelli
Pagine: 599
Prezzo: 14,90

E visto che per questa volta direi di avere blaterato proprio abbastanza, mi auguro che abbiate gradito la recensione (se ce l’avete fatta ad arrivare fin quaggiù, tanto di cappello)!

Alla prossima!